la teoria della padellata

Ricordo con una modica quantitá di nostalgia i tempi in cui l’amore era una condanna inappellabile, che mi faceva piangere la notte e maledire l’alba, che mi consumava dentro e mi dava attacchi di bulimia furiosa, che mi faceva perdere tempo e mi dava l’illusione di vivere una vita appassionante.

In definitiva, l’ossessione di riempirmi la vita d’amore me la faceva riempire, piuttosto, di merda.

Ero un’appassionata combattente – solo delle cause perse, peró: non appena si presentava all’orizzonte la possibilitá di una storia che potesse farmi felice, scappavo come una lepre. Quello che invece rincorrevo,
con una abnegazione da apostolo, era la botta. L’amore che ti lascia senza respiro, che ti fa tremare la terra sotto i piedi, che ti stravolge, sconvolge, strapazza – e che infine, invariabilmente, ti delude.

Jasmina la chiamava l’irresistibile attrazione per la padellata sui denti, alla quale t’avvicini con la gioia idiota di una cavalla al galoppo, con la bocca aperta in un sorriso enorme, pronta a farti spaccare la dentiera.

Credo che in realtá il problema fosse che ero terrorizzata dalla possibilitá di essere felice. Vittima di una cattiva letteratura sull’arte e l’amore e il delirio e i loro intrecci, ero convinta che senza sofferenza la passione si trasformasse in una minestra insipida, che senza sudore nessuna conquista avesse senso, che per assaporare la dolcezza dell’estasi fossero necessarie delle gite periodiche nei baratri piú profondi della tristezza.

Dico sempre che menomale che si è giovani una volta sola.

Appena prima dei 30 vissi l’ultima stagione dell’amore impossibile: storie che non arrivavano al quarto round, dove la dose di tormento era sempre ragguardevole ma non tanto da mandarmi al tappeto. Fu quando finalmente imparai il senso e il valore del gesto supremo del gettare la spugna. Fino ad allora mi era stato sempre difficile, se non impossibile, lasciare un amante. Mi strascinavo fino all’estremo nei balletti ipocriti del io vorrei, non vorrei, ma se vuoi, del prendiamoci una pausa, del non è colpa tua sono io che non ci sto dentro, navigando nei mari melmosi del senso di colpa solamente perché incapace di dire chiaramente BASTA (che poteva essere seguito, a scelta, dalle specificazioni non ce la faccio piú – m’hai rotto er cazzo – non posso competere con la cocaina – non voglio competere con la tua ex – mi piace un’altra – non me la lecchi abbastanza – eccetera).

Allo scoccare dei 30, qualcosa si mosse, un movimento impercettibile dal fuori al dentro mi spinse a rivedere in maniera drastica le mie posizioni. Per salvarmi la vita avevo deciso di lasciare tutto quello che avevo di piú caro: le mie famiglie, il mio percorso nell’attivismo, la mia cittá, la mia lingua. E se avevo avuto il coraggio di buttare a mare la mia storia, di reinventarmi daccapo, di ripartire dallo zero assoluto… come non pensare che fosse possibile sganciarmi dalle relazioni che non mi facevano stare bene?

Non fu una scelta consapevole, successe e basta.

Elaborai una nuova teoria della sopravvivenza: io ero piú importante di qualsiasi amore. Il mio equilibrio era piú indispensabile della passione: il cuore batteva lo stesso ed era piacevole svegliarsi la mattina senza l’affanno. Sí che potevo, visto che era necessario.

Da allora è passata molta acqua sotto ai miei ponti.

Sono riuscita a impegnarmi in una storia d’amore felice, cosí incredibilmente nuova e mia da lasciarmi anche lo spazio per vivere altre passioni, altri giochi, altre danze su binari paralleli.

E ballando ballando, mi succede ancora di rimediare qualche padellata.

Con tutta l’esperienza e la diffidenza e i paletti che mi sono con cura sistemata intorno, continua a succedere. Ma mi piglia di striscio, e almeno ho cura di chiudere la boccuccia.

E sono sveltissima a scappare, quando succede. A volte riesco a dissolvermi nell’aria non appena intravedo la sagoma familiare della padella all’orizzonte. Ho imparato a dire a me stessa: no, grazie.

A non rispondere al telefono, a fare un respiro profondo e passare oltre. A prevenire, piuttosto che curare.

E invece di affogare nel cibo mi butto nel lavoro. Mangio meno e mi rinsecco, riciclo ossessioni erotiche antiche pur di non dilaniarmi sul desiderio perduto, chiamo le amiche e mi prendo in giro da sola, pulisco il giardino, faccio splendere le piastrelle del bagno.

Non bevo, non mi compro un paio di scarpe, non schiaccio chiodi a caso: non sono mai stata una donna di quelle dei giornali femminili, ho elaborato delle forme di reazione al di fuori del mercato.

E sono piú felice di prima.

Mi godo lo struggimento dolce della perdita, che è come una droga: veleno controllato, che non mi uccide ma è capace di stravolgermi i sensi – senza rompermi tutti i denti.

(a Retroguad1a, soprattutto – ma anche a V. che é rimasta con la padella in mano a guardarmi da lontano e a Jasmina, amica sorella per sempre)

7 thoughts on “la teoria della padellata”

  1. anni fa ti leggevo spesso, poi con l’avvento di FB mi sn fatta coinvolgere solo lì, ora mi mancavi e sn tornata a rileggerti, e come sempre l’aria è resa frizzante!
    volevo solo farti sapere di questa sconosciuta che ti legge e sorride 😉

  2. cara, quanto bene mi ha fatto leggere questo tuo post. Io credo che noi ci siamo dimenticte del mattarello, arma di difesa che da sempre le femmine hanno utilizzato con sapienza. Il problema è che dal mattarello fisico, che oggettivamente non va più di moda, dovremmo passare al mattarello psichico. Perché anche la violenza umana si è spostata, e si è alzata di livello.-

  3. Andando a ritroso nel tempo ti posso citare anche giornali molto 70’s 80’s quali “Intimità” e “Confidenze”…

  4. Proprio in questi giorni disicuto molto tra e me e con chi capita a tiro di che cosa sono i femminili oggi. Un tempo erano mezzo di informazione e emancipazione per le donne che non avevano accesso al femminismo, abitavano in provincia, era scandaloso pure che leggessero (era proibito pure il quaderno, no? tenere il diario). Penso a Brunella Gasparrini chenella sua rubrica su Amica scriveva di divorzio aborto etc…. Gli anni ottanta hanno creato quel tipo di femminile a cui ti riferisci tu. Poi c’è stata l’ascesa dei magazine di gossip televisivi e molti femminili si sono buttati in quella direzione (vendevano). Poi è arrivata maria laura rodotà che con amica (5 anni fa circa) rifondò temi e linguaggi del femminile permettendo di mischiare alto e basso, filosofia e sesso, politica e stronzaggine, molto cazzeggiando. Negli ultimi tempi a me pare che alcuni femminili (ma anche marie claire per esempio) come quello in cui scrivo io siano tra le poche oasi nel mainestream informativo non completamente asservite ai padroni del pensiero (da una e dall’altra parte) e al conformismo. E poi i “femminili” sono giornali , dunque strumenti di diffusione, dove scrivo io e altre come me, quindi questo spazio va difeso con le unghie e con i denti, ci è utile. Il pezzo che ho scritto sull’esibizionismo puoi non condividerlo, ma non è la lagna politicamente corretta che dobbiamo bibitarci solitamente. dove lo trovi un articolo così? sull’espresso? no li direbbero che è colpa di berlusconi, a prescindere. bacio. ps: bel pippone eh;) ma è solo perché mi interessa discuterne con te

  5. il *giornale femminile* é un topico, forse un po’ consunto.
    ultimamente non ho i soldi per comprare manco un quotidiano, figuriamoci.

    cmq intendo per *femminili* i giornali che usano espressioni come *prova costume* *l’accessorio immancabile* *il tuo Lui*, che dedicano pagine ai famosi di turno, che ti propongono la ricetta con il computo delle calorie, che Sex and the city é il massimo della trasgressione, che il bon ton e i problemi di cuore.
    ci siamo capite, no?

    mia zia aveva l’abbonamento a Donna Moderna e quando andavo a trovarla, visto che mi annoiavo e avrei letto pure l’elenco del telefono, mi immergevo in quel mondo estraneo, finendo per sentirmi né donna né moderna, se quelli erano i parametri.

    tu sei una giornalista, giustamente scrivi dove ti pagano. e se per caso li leggi, i *femminili*, é sempre per lavoro.
    o no?

    😉

  6. suprema arte gettare la spugna, vero, sarebbe bello pure intingerla in un colore e gettandolo via, lasciare un scia, un segno che è lì, era tuo e ora di chi lo guarda. bello slavina davvero. ma perché “non sei mai stata una donna di quelle dei giornali femminili”? che vor di? quali femmine? quali femminili? Io per esempio? bacio grande

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