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riflessioni politico-colitiche

Generare Indipendenza (campagna abbonamenti DINAMOpress)

Genero indipendenza perché coltivo da sempre una radicalitá serena e insopprimibile
e questa scelta – che non è solo astratta e concettuale, ma di posizionamento nella realtà (di chi vive in maniera precaria e senza alcuna garanzia di sorta)
mi fa sentire vicina a DINAMOpress, un media indipendente veramente.

Genero indipendenza perché sono femminista e parto da me, dalla coerenza con cui io mi metto in gioco e che vorrei in parole e fatti.

Genero indipendenza perché vent’anni fa nasceva Indymedia, che a un certo punto è morta ma forse invece vive ancora in tutti i tentativi di critica ragionata e collettiva al sistema-informazione.
direi che sarebbe il caso di farne riuscire almeno uno.

per questo partecipo alla campagna di abbonamenti di DINAMOpress
e vi invito a farlo, con il contributo che potete dare e facendola girare il più possibile, con ogni media necessario.

 

Parole che dice il corpo

Perché scriviamo?
Per chiarirci le idee. Per fermare un ricordo o per rielaborarlo. Per raccontarci. Per comunicare.
Qualunque sia la ragione per cui lo facciamo, a volte ci sembra di non avere abbastanza strumenti per farlo, come se avessimo bisogno di imbrigliare la potenza della nostra espressione in formati riconoscibili per renderla intellegibile.
E se invece lasciassimo parlare il corpo?
A volte vorremmo che la scrittura fosse un ponte e invece rimane un recinto rassicurante ma chiuso. Un’espressione che rimane muta anche quando sentiamo di avere tante cose da dire.
È possibile trasformare la scrittura, esperienza singola e solitaria, in una pratica di socializzazione?

immagine di H. Passarello dal cabaret L'euphorie du corps rebelle
immagine di H. Passarello – dal cabaret L’euphorie du corps rebelle

Parole che dice il corpo è un laboratorio di scrittura erotica che si svolge in due sessioni: la prima dedicata alla presentazione e analisi dei modelli di rappresentazione letteraria, la seconda piú centrata sul gioco e la condivisione. In entrambe le sessioni sono previsti esperimenti di scrittura singolare e collettiva.

Attraverso l’esperienza del laboratorio proponiamo un avvicinamento alla scrittura erotica come tattica di impoteramento femminista – dalla stanza tutta per sé alla stanza tutta per noi.


L’erotico si colloca tra l’inizio del nostro senso di sé e il caos del nostro sentire piú profondo. É un senso di soddisfazione interiore al quale, una volta sperimentato, sappiamo di poter aspirare. Perchè dopo aver sperimentato la pienezza di questo sentire profondo e averne riconosciuto il potere, noi non possiamo, in onore e rispetto di noi, pretendere di meno da noi stesse.
(Audre Lorde – Usi dell’erotico: l’erotico come potere)

Definiamo scrittura erotica l’ambito formale che interessa corpo, desiderio e sessualitá ma che secondo l’interpretazione di Lorde riguarda, in realtá, la potenza non razionale e non addomesticabile che viene dalle viscere.

Il laboratorio è pensato come misto e strutturato secondo principi di partecipazione femminista, orizzontali e di rispetto reciproco. Riconosciamo il corpo sociale come corpo erotico e l’intento del laboratorio è dargli voce nelle modalitá (che dovrebbero essere) proprie della politica in cui ci riconosciamo e che pratichiamo nelle nostre lotte quotidiane.

 

PAROLE CHE DICE IL CORPO
si terrà
a Roma mercoledí 25 e giovedí 26 maggio dalle 20 alle 22.30 presso ESC atelier (via dei Volsci 159)
a Bologna venerdì 27 e sabato 28 maggio dalle 18 alle 20.30 presso Barrinque, fiera della piccola editoria organizzata da Gateway in collaborazione con CostaArena

Per partecipare è necessario iscriversi scrivendo una mail a ziaslavina@gmail.com.
Il contributo di partecipazione richiesto è di 15 euro.

La notte è nostra*

Scommettiamo su un femminismo che ci definisca per ciò che facciamo, non per ciò che dica che siamo. Scommettiamo su un femminismo autocritico, dall’interno verso l’esterno, che riveda le nostre pratiche quotidiane, le nostre relazioni. Un femminismo che sia capace di smascherare tutti gli spazi che il patriarcato occupa nelle nostre vite. Che lo affronti e non rimanga in silenzio.

Un femminismo che non sia una toppa su una maglietta, una spilla in più, una posa plastica. Un femminismo che ci insegni a riconoscere il poliziotto patriarcale che anche noi abbiamo dentro, e che vogliamo distruggere tanto come la polizia fuori. Scommettiamo su un femminismo che sia un processo capace di liberarci e che sia capace di riconoscere i privilegi che oggi ci permettono stare qui: abbiamo la possibilità fisica di spostarci, non ci hanno deportate, non siamo rinchiuse per una diagnosi o una sentenza, non siamo una delle 80 donne assassinate nel 2015, o delle 17 dall’inizio del 2016.

Non siamo nemmeno nessuna delle molte persone trans, le cui morti neppure si prendono in considerazione nelle statistiche sulla violenza di genere. La Eteronorma esclude e aggredisce ogni giorno, decidendo chi è valida e chi no, in un sistema che castiga la differenza e la dissidenza. Alan**, non ti dimentichiamo, e neanche a moltx altrx. Davanti alla normalizzazione delle violenze, vogliamo costruire una risposta collettiva che organizzi la nostra rabbia. Davanti alla norma etero, resistenza e provocazione costanti.

No, non ci siamo tutte e non ci stancheremo di ripeterlo. Mancano le nostre sorelle imprigionate, le psichiatrizzate, le deportate, quelle che portano sulle spalle tutte le cure alle loro famiglie o alle famiglie di altre-i, quelle che hanno un lavoro di merda e non possono lasciarlo, quelle che vivono relazioni di controllo e di violenza, quelle che non hanno avuto il diritto di migrare.

No, non siamo tutte e non ci fermeremo finchè nessuna mancherà. Il femminismo non può essere solo per bianche, non può essere solo di classe media, per accademiche, cis e eterosessuali. Per questo scommettiamo per un femminismo che faccia scoppiare le frontiere, le prigioni, i privilegi e le taglie. Per questo scommettiamo su un femminismo che vada su sedia a rotelle, che cammini nell’oscurità, che vibri, che si adatti ai ritmi di ognuna, che si accompagni. Un femminismo generato dalle nostre distinte capacità, non le nostre capacità adattate al femminismo.

Un femminismo che metta al centro la cura. Siamo stufe del produttivismo, di essere schiave delle agende, di lavori che ci rubano la vita, che i nostri progetti vitali svaniscano di fronte al ritmo capitalista e finiscano in secondo piano, e noi con loro. Siamo stufe della precarietà affettiva e materiale.

Per questo, stanche, passiamo all’azione:

Ci organizziamo con le nostre vicine per affrontare faccia a faccia gli speculatori del quartiere; condividiamo saperi sulla salute, recuperiamo il riposo e rivendichiamo la pigrizia. Okkupiamo spazi dove incontrarci e tessere reti; ci organizziamo con compagne di lavoro e affrontiamo il capo e l’aggressore; dedichiamo tempo e costanza alle nostre illusioni, ai nostri aneliti e desideri; creiamo gruppi di autodifesa e ci alleniamo; generiamo insieme alternative al consumo e lottiamo per l’autogestione delle nostre vite; ci accompagnamo e ascoltiamo nei nostri processi e riparazioni. Insieme affrontiamo l’abuso da dovunque esso provenga, qualunque sia la sua origine. Mettiamo in discussione le vecchie e nuove mascolinità con colpi e risate fragororose. Impariamo a riciclare, a rubare, a mentire, e lo facciamo senza colpa. Neghiamo essere ragazze fighe per il Capitale e difendiamo le nostre mostruosità.

Scommettiamo su un femminismo che continui ad affrontare apertamente le facce della Politica, che non si conformi, che non si compri, che non si venda, che non creda alle sue politiche truccate. Non vogliamo un femminismo recuperato dallo Stato, e nemmeno un femminismo soprammobile.

Il patriarcato non si distruggerà nelle urne, e lo sappiamo. Non ci adegueremo agli uffici, gli assessorati e le sovvenzioni. Vogliamo un femminismo di lotta costante nelle strade, nelle case e in tutti gli spazi.

Scommettiamo su un femminismo che cominci con ciascuna di noi, che si costruisca con le mani delle nostre amiche, un femminismo collettivo, gomito a gomito, quotidiano e combattivo. Un femminismo che non risponda a gerarchie e a rappresentazioni, un femminismo autonomo e orizzontale.

Scommettiamo su un femminismo che sono molti femminismi, che non è un obiettivo, è un cammino, una posizione davanti al mondo, un punto di partenza. Un femminismo che prende la strada oggi, come ogni anno, per gridare ben forte che LA NOTTE È NOSTRA!

(immagine di Lara Mazagatos Pascual)
(immagine di Lara Mazagatos Pascual)

* traduzione fatta con amore e rabbia dalla mia amica Zebra: è il testo di lancio della manifestazione notturna La nit es nostra, che ha inaugurato le giornate femministe di Se va a armar la gorda (Barcelona)

** Alan è un adolescente trans morto suicida alla fine dello scorso anno. ne ha scritto Preciado (qui, tradotto)

Uno stupro amichevole – reload

(è una versione leggermente diversa da quella originale. più matura direi.
è stata pubblicata su LASPRO rivista di narrativa sociale)

non sei sola (foto di Svalilla dal laboratorio Io Porno, Bologna 2015)
non sei sola (foto di Svalilla dal laboratorio Io Porno, Bologna 2015)

Due anni fa, all’inizio dell’estate, ebbi una conversazione illuminante con alcune amiche. Parlavamo di violenza sessuale, nello specifico di quelle che avevamo subito.
Io, un po’ smargiassa, sostenevo di non essere mai stata violentata. Mi vantavo un po’ di una serie di feature animalesche sviluppate in quanto ragazza di borgata (l’occhio del ramarro, la velocitá della gazzella e l’istinto del riccio) che singolarmente e combinate tra loro m’avevano salvato letteralmente il culo in piú d’una occasione di pericolo. Riflettevo anche sul fatto che, pur essendo una psiconauta frequentatrice abituale della via dell’eccesso, in realtá non sono mai stata una sfasciona professionale, di quelle che si mettono nei guai per candore alcolico o ingenuitá chimica.
Neanche il tempo di sentirmi cosí sveglia e fortunata insieme che una delle amiche, guardandomi a lungo negli occhi mi dice: non vorrai dirmi che nessun amico t’ha mai stuprato?
E lí ho deglutito duro e pure se non mi ricordavo bene, ho sentito che non avrei potuto rispondere che no, nessun amico mi aveva mai violentato.
Perché ci sono violenze alle quali non abbiamo il coraggio di dare questo nome; perché è troppo duro ammetterlo, perché magari in quel momento abbiamo lasciato fare, perché uno strillo non ci stava e nemmeno uno spintone – ma perché poi?
A distanza di tanti anni mi chiedo ancora perché non ho avuto il coraggio e la forza di urlargli NOOOOO, CAZZO! e di allontanarlo con una legittima dose di violenza…

La storia è semplice e banale e credo assomigli a un sacco di altre.
Lui era un mio amico. Anzi, di piú. Quando avevo vent’anni e avevo giá alle spalle qualche anno di attivismo studentesco ebbi con lui una storia d’amore breve e abbastanza tormentata. Non viveva in Italia ed era un compagno di provata fede, sensibilitá e intelligenza. Aveva una decina d’anni piú di me ma a quei tempi uno che non avesse almeno un lustro di vantaggio non lo riuscivo proprio a considerare.
Duró poco ma fu un amore intenso e pieno di parole – a quei tempi ancora si scrivevano e spedivano lettere; fu un amore illegittimo e pieno di lacrime, perché io avevo un fidanzato che non volevo lasciare, anche se mi sembrava di essere follemente innamorata di quest’altro (a quei tempi lo chiamavo il complesso di Jules et Jim ed era una primitiva consapevolezza del fatto che un uomo solo né mi sarebbe mai bastato, né avrebbe potuto mai sopportarmi intera).
Insomma Goran (chiamiamolo cosí, che era il nome che gli davo nelle poesie – sí, ero un’attivista che scriveva poesie e indossava minigonne di pelle blu elettrica – proprio normale non sono mai stata) mi tolse definitivamente di dosso il peso della forzata innocenza monogamica e poi partí per il Messico, paese dove soggiornava regolarmente durante gli inverni europei. Io intanto mi ero giá follemente innamorata di qualcun altro e lo persi un po’ di vista.
Lo ritrovai su Internet, alcuni anni dopo. Mi mandava mie foto che trovava in giro per la rete e mi diceva sempre che ero tanto bella.
Poi un giorno mi scrisse che veniva a Roma, per una mostra. Che se lo passavo a salutare, che aveva un sacco voglia di vedermi e sapere che facevo e come mi andava.
Mi andava male, mi sembra di ricordare. Risposi con entusiasmo alla sua mail e ci vedemmo la sera stessa. Era abbastanza uguale a come lo ricordavo: bassetto, biondo e con gli occhi belli, di un’intelligenza un po’ crudele. Aveva piú panza di quanto ricordassi e glielo feci notare.
Io ero stanca e dopo due canne mi sentivo una donna da buttare.
Non ricordo dove fosse la mia casa a quei tempi. Sicuramente troppo lontana, tanto che lui mi disse: se vuoi puoi fermarti a dormire da me, ho una stanza in un hotel qua vicino, tranquilla.
Ora, qualsiasi persona di buon senso che abbia vissuto anche solo pochi mesi della sua vita a Roma sa che “Tranquillo ha fatto una brutta fine”, ma come potevo non fidarmi di lui? Del compagno fondatore di riviste insurrezionaliste che aveva respirato la puzza dei piedi del subcomandante Marcos, dell’amico che m’aveva regalato un coltello, perché puó sempre servire, dell’idolo che praticava la rivoluzione permanente, dell’uomo che m’aveva sedotto raccontandomi per filo e per segno la dinamica di non so che riot di inizio anni ‘80 come se fosse la battaglia di Magenta…
Mi fidai. Salimmo in camera sua. Neanche avevamo cenato: mi buttai sul letto a peso morto e gli dissi: Domattina facciamo una bella colazione, eh?
Lui mi disse: Ti faccio un massaggio. Io gli dissi Ah non lo rifiuto di certo, peró sappi che ho sonno e ho bisogno e voglia di dormire. Lui mi disse un’altra volta Tranquilla.
Il resto è confuso e amaro di sapore. Mi tolgo la maglietta (Sennó, scusa, che massaggio è?) e affondo la testa nel cuscino.
Lui mi tocca la schiena per una decina di minuti, nemmeno, e poi si fionda sul culo. Mi vuole togliere le mutande. Io gli dico che no, ma evidentemente la protesta è troppo blanda. Sono stanca morta e comincio a capire come andrá a finire. Gli dico Dai Goran, magari domattina, è che adesso ho proprio sonno. Mi dice mettiti giú, tranquilla. Mi giro di spalle e cerco di pensare che non sono lí. Si avvicina, mi infila la faccia nella fica, poi ci mette un dito, due dita. Si muove lí dentro, mi allarga, si fa strada. Io sbuffo, mi tiro su e gli dico Ma che fai? Lui sorride e io mi sento una merda. Rimango seduta, tutta rannicchiata: mi bacia e vuole guardarmi negli occhi. Io abbasso lo sguardo e provo a dire È che non mi va e giro la testa, ma lui mi segue, mi infila la lingua in bocca, mi da un milione di odiosissimi bacini sul collo, sulle guance, dovunque arrivi.
Io sento che a sto punto dovrei piangere ma non mi va di piangere, vorrei solo dormire e allora mi rimetto giú e m’affogo nel cuscino.
Lui lo prende come un via libera e a quel punto fa tutto da solo. Sono troppo mortificata per fare qualcosa di diverso dal subire. Penso che se smetto di resistere magari finisce prima.
Si mette un preservativo, entra, stantuffa e se ne viene in un tempo che mi sembra lunghissimo, durante il quale penso che sono una stupida e che è colpa mia, che qui non ci dovevo venire e che questa storia non la sapró mai nemmeno raccontare.
Non mi ricordo la mattina dopo, so che da allora ho sempre accuratamente evitato di incontrarlo. L’ho odiato e non gliel’ho mai saputo dire.
Ho odiato me stessa per non aver saputo reagire. Per tanto tempo ho rimosso il ricordo di quella notte in cui mi sono sentita usata, tradita, insultata.
Eppure alla fine a me stessa sono riuscita a perdonare tutto: l’ingenuitá, l’incapacitá di reagire e il silenzio.
Lui non l’ho perdonato, e in fondo neanche mi interessa piú farglielo sapere. Ho fatto talmente tanti chilometri che ho smesso di considerare questa storia una questione personale.

Penso sia piú utile raccontarla alle donne – e soprattutto agli uomini – che la sapranno ascoltare.

Genova per noi

Quest’inverno ho partecipato al progetto Tifiamo Scaramouche scrivendo un racconto sul G8 di Genova e sull’estate in cui entrammo nell’era del terrore globale.
Ho rimesso le mani in una memoria ancora dolorosa (lo abbiamo capito subito che le ferite di Genova non si sarebbero mai rimarginate) con il proposito ambizioso di raccontare la Storia attraverso alcune microstorie che la attraversarono.

È un piccolo, affettuoso e provocatorio omaggio a Candida TV (collettivo di cui ho fatto parte per alcuni, decisivi anni) e a chi la componeva.

Genova per noi è come sempre di una storia vera piena di bugie e i 4 personaggi che hanno voce nel racconto ne rappresentano molti di più.
Qua sotto ne potete leggere un estratto, per leggerlo per intero (e un sacco di altra roba interessante) scaricatevi le raccolte di Tifiamo Scaramouche.

Selma

A Genova i giorni prima del vertice sono pieni di un’allegria tesa. Montiamo il Media Center alla Pascoli, una scuola. Dall’altra parte della strada c’è la Diaz, che sarebbe diventata tristemente famosa ma noi ancora non lo sappiamo. Ci muoviamo in un’atmosfera irreale, in cui la paranoia si mischia all’entusiasmo. La città è blindata, la zona rossa (quella in cui si svolge il vertice) è protetta da inferriate alte più di due metri e quando le guardi non puoi evitare di pensare a quanto gli facciamo paura.
Asso aveva ragione, stare insieme è un’esperienza esaltante, è sentirsi parte di una cospirazione mondiale perché respiriamo insieme, mangiamo insieme, fumiamo insieme, dormiamo insieme, andiamo insieme pure al bagno. Ci si conosce e ogni giorno ci si innamora un po’. É di questo che hanno paura?
Le assemblee sono un po’ un casino perché poche persone parlano inglese e c’è sempre da tradurre e io penso a Custer e mi dispiace che non ci sia. Credo dispiaccia un bel po’ anche a lei, che col gruppo si fa sentire di meno ma con me si lamenta in privato e mi chiede che fa Asso. Io glisso, anche perché ho perso il conto di quelle che gli stanno intorno. E non le racconto nemmeno che certe volte mi parla di lei con gli occhi lucidi, mi limito a dirle che ci manca ma non insisto troppo, che lo so che ci sta male.
Poi, dopo un preambolo che è sembrato un secolo breve arriva il giovedì, il primo giorno di manifestazione. La piazza è dei migranti ed è piena di colori e musica e sembra tutto bellissimo e tranquillo. La polizia mantiene le distanze e ci illudiamo che le minacce dei mesi scorsi rimarranno lettera morta. La sera festeggiamo pure e io mi porto nel sacco a pelo un tipo di Milano che invece non si fida per niente e che nemmeno mentre scopiamo smette di dire che c’è poco da stare allegri, che domani sarà un casino.
Il venerdì infatti è un giorno delirante. Già da prima di mezzogiorno cominciano gli scontri. Noi siamo col blocco rosa, il nostro supereroe mascherato riesce quasi a scavalcare le recinzioni, c’è un’aria ancora festosa anche se via telefono ogni tanto arrivano notizie allarmanti. Il sole cuoce e ogni volta che ci fermiamo un attimo per bagnarci un po’ la testa e facciamo due telefonate per sapere come va nelle altre piazze la preoccupazione brucia ancora di più, dentro.
Io mi nascondo dietro la telecamera, come faccio sempre, ma a un certo punto mi devo fermare perché non so se sia la stanchezza o che altro ma la mia mano trema. Asso è di nuovo al telefono, la maschera arancione alzata e la faccia scura. «Preparati che ci muoviamo verso piazza Alimonda. Non ho capito bene ma dev’essere successo un casino serio».
Camminiamo quasi di corsa, ho come l’impressione che Asso sappia di più di quello che dice, deglutisce a fatica e se non lo conoscessi bene direi che piange o meglio, gli sfuggono delle lacrime dagli occhi. Io sono stanchissima e arranco e così a un certo punto mi prende la mano e mi trascina. Cammina troppo veloce tanto che dopo un po’ gli dico che mi sta facendo male e che dove cazzo corre come un pazzo e allora lui si gira e mi guarda con gli occhi rossi spalancati e mi dice in un soffio che c’è scappato il morto, che non si sa chi è ma se stava coi Disobbedienti sicuro che lo conosciamo. E allora Asso, la nostra carta vincente, il nostro supereoe, quello che se ha paura è capace di non darlo a vedere, va in pezzi. Io sono paralizzata dal terrore e dal dolore mentre lui mi abbraccia singhiozzando. Dura forse due minuti, ci teniamo stretti come se intorno ci fosse un terremoto e poi all’improvviso ritorniamo dritti, con un’elettricità nelle gambe che ci fa arrivare a destinazione in un lampo.

Tisi

Eccola che arriva. Sempre con quella cazzo di telecamera in mano e ovviamente accompagnata da quel buffone napoletano, che è fidanzato con Custer ma gli sta sempre appiccicato al culo. Un giorno glielo vorrei proprio chiedere, se scopano pure in tre.
Io con Selma non ci ho scopato, però ci siamo baciati e toccati e ci è mancato proprio pochissimo… però sembra che lei non si ricordi. Effettivamente stavamo belli stonati, ma com’è che io mi ricordo benissimo e ci sono pure rimasto sotto e lei invece mi saluta sempre solo da lontano? Politicamente non ci capiamo proprio, lei fa tutta la rivoluzionaria però usa gli strumenti del padrone. «È che io lavoro col video, con Linux è impossibile». Impossibile un cazzo. Impossibile è che uno rimanga morto ammazzato in una manifestazione e invece oggi è successo, e io ero lì di fianco. La camionetta dei carabinieri non ripartiva e gli stava arrivando addosso di tutto e due serciate gliele avrei date volentieri anch’io, solo che stavo sudando sotto quella cazzo di maschera, così mi sono fermato un attimo ad asciugarmi e siccome non ci vedevo mi sono messo di lato e mentre non guardavo ho sentito lo sparo. Che l’ho capito dopo che era uno sparo, quando ho visto quel tipo nella pozza di sangue. Chi cazzo l’aveva mai sentito uno sparo? Beh, comunque non mi era sembrato un botto di Capodanno.
Così adesso l’ho buttata, quella maschera che m’ha salvato la vita. Non me la potevo mica tenere, che magari qualche stronzo con la telecamera m’ha ripreso – e ce ne stavano diecimila, oltre alle guardie. M’occupava una cifra di spazio nello zaino ed era scomodissima da portare, ma un po’ ci tenevo.
L’avevo trovata a Porta Portese, la mattina dopo un rave. Ci ero arrivato proprio con Custer, per una volta in libera uscita senza Asso. Stavamo tutti morbidi e sospironi, in piena discesa, e tra i colori del mercato era spuntata quella macchia nera.
«Aó, anvedi Pulcinella, è il tuo fidanzato che ci perseguita» le avevo detto. Lei aveva rosicato – «Oh mica è colpa mia se è geloso e napoletano» – e quindi attaccato la pippa da professoressa: «Guarda che questo non è Pulcinella, è Scaramuccia. Mentre Pulcinella ha sempre fame, Scaramuccia ha sempre voglia di litigare. Come te».
Custer m’azzitta sempre e mica solo perché ha fatto il dams. Perché è più grande e ci conosciamo da una vita e lei è sempre un passo avanti. E infatti non ci si è messa, in questa carneficina.
E invece noi sì e siamo qua ad aspettare, hanno chiuso piazza Alimonda e non fanno entrare nessuno e io non lo so mica cos’é che aspetto, dovrei squagliarmela ma non ce la faccio, e adesso è arrivata pure lei…

[continua…]

Supervideo >>> G8 (il video di Candida a Genova) lo trovate qui.

La lega del filo rosa [May Day 2004]

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Articolo xy
L’Italia e’ una Repubblica fondata sulle relazioni.

Non e’ piu’ il lavoro il collante sociale che garantisce una sopravvivenza
dignitosa, siamo piuttosto imbrigliati tra *famiglie*, amicizie, affinita’
e altre forme di legame piu’ o meno convenzionali che sono l’ultima (e
unica) rete di sicurezza che ci e’ concessa.

Alla Mayday di Milano, partendo dal Blocco Rosa, invaderemo la parata
cercando di rendere visibile e tangibile questa rete attraverso azioni
performative includenti e interattive.
Molteplici fili rosa costruiranno improbabili architetture, lanceranno
ponti, intrecceranno collegamenti.
Fili fragili e precari come le nostre esistenze, pronti a spezzarsi e a
riallacciarsi liberamente a rappresentare i legami come li vogliamo,
basati sul consenso e sul gioco (intrecci a maglia larga, non nodi, dai
quail ci si possa sfilare senza la necessita’ di spezzarli).

Se abbiamo perso il filo del discorso, riannodiamo i fili della
comunicazione. Badando bene che siano fili rosa 😉

Empowerpink: si insinua nell’etere come un profumo, cattura il nervo
ottico come un fascio di luce nella penombra.
Porta il tuo filo rosa e intrecciati: la rete si muove e si espande.

Facciamoci il filo come innamorat* discretamente invadent*.

… e sopra di noi, a vegliare sul grande spettacolo rosa, Spider Mom: la
mamma ragna, che a volte ritorna per insegnarci un nuovo stile di
tessitura: una la disfa, un’altra continua!

(comunicato del Pink Bloc risalente al 2004, che annunciava una performance abbastanza delirante che feci all’interno della May Day Parade, tra le altre cose.
sembra ieri, ma sono passati piú di 10 anni. e l’analisi e l’invito mi sembrano piú che mai attuali.

alcuni di quei fili si sono aggrovigliati, altri sono diventati delle corde robuste che mi tengono su quando mi domando che senso abbia il mio impegno e se ancora valga qualcosa.
oggi che è primavera e che ho sconfitto l’inverno del mio proprio scontento mi dico che sí che ne è valsa la pena, che il rosa ci ha liberato, ci ha aiutato a creare degli spazi di autonomia e ha dato voce a molti soggetti che nel contesto della militanza tradizionale non trovavano spazio.
non saró per le strade di Milano a contestare l’infamia di Expo, ma di sicuro ci sará una parte di me: quella che ho seminato e coltivato in questi anni insieme a tanti e tante altre.
e scusate l’ardire e il personalismo, ma ne vado abbastanza fiera.

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che siate rosa, rosse, nere o verdi la zia vi penza e v’accompanza, adelante)

chi ha fermato Rodrigo Rato?

La notizia merita un piccolo approfondimento da parte della vostra inviata nella Penisola Iberica: ieri è stato arrestato Rodrigo de Rato y Figaredo, meglio conosciuto come Rodrigo Rato, uomo forte del Partido Popular per il quale ha ricoperto il ruolo di ministro in vari governi.

Rato fu anche a capo del Fondo Monetario Internazionale, incarico che lasció con poca gloria nel 2007. Da allora, secondo una modalitá che in Spagna viene chiamata con amara ironia di Puertas giratorias (porte girevoli) Rato passó al privato, dirigendo una delle operazioni finanziarie piú spregiudicate (e fallimentari) degli ultimi anni: il lancio della holding Bankia, che trascinó sul lastrico migliaia di piccoli investitori. Il colmo è che per “salvare” questa impresa intervenne il governo spagnolo con un finanziamento miliardario (si parla infatti di porte girevoli per la facilitá con cui certi personaggi della politica passino dal pubbico al privato – beneficiando sempre quest’ultimo).

Ma il cuore della notizia, quello che forse non apparirá in nessun articolo della stampa italiana – ma per questo ci sono io 😉 è che la caduta del Dio Rato è stata causata in buona misura da un’iniziativa popolare: una querela alla Audiencia Nacional, finanziata da un crowdfunding (una raccolta di fondi partecipativa), del gruppo 15mpaRato, che raccolse prove della truffa di Bankia (che fu lanciata in borsa quando i suoi bilanci erano giá fallimentari) e che attraverso il lavoro del suo team giuridico e di inchiesta riuscí a portare alla luce altri scandali legati alla corruzione della classe politica. E il tutto nella piena trasparenza, dei documenti e delle azioni.

Io sono per l’abolizione del carcere e quando venne lanciata la campagna (le cui parole chiave erano Rodrigo Rato in galera) per questa ragione un po’ rimasi ai margini. Non mi piacciono gli appelli “alla pancia del paese”, mi mettono a disagio.

Oggi devo ammettere che il lavoro di comunicazione e mobilitazione della cittadinanza è stato eccellente. E il suo sviluppo* dimostra che dalla pancia si puó arrivare alla testa.

E siccome ho paura che [almeno nella mia lingua] non lo dica nessuno (perché se si estendesse questa pratica per le elite che ci governano sarebbe pericolosissima) lo voglio dire almeno io: grazie 15mpaRato. Per le capacitá strategiche, per la lungimiranza e il coraggio.

*il gruppo si è dichiarato disponibile ad un confronto con Rato, per uscire dalla dinamica del capro espiatorio e arrivare ad identificare complicitá piú o meno occulte: la finalitá non è metterne uno in galera ma cacciarli via tutti dal potere.

due cose, per concludere: la prima è che non sono giornalista e non mi occupo di finanza, quindi è possibile che questo articoletto contenga delle imprecisioni. invito qualche giornalista con cognizione di causa (e stipendio magari) ad occuparsene e ad approfondire.

la seconda è un divertissement: nel video che segue potete apprezzare l’accoglienza a Rato – nel Parlamento Catalano – di un politico che ammiro profondamente. c’entra poco o niente con 15mpaRato, peró 1) fa ridere col cuore 2) il partito a cui appartiene Fernandez, la CUP, è uno di quelli che hanno preso forza a partire dal movimento del 15m (quello che in Italia viene ancora chiamato degli Indignados, credo), brodo primordiale di tante iniziative popolari come, appunto 15mpaRato.

Politiche di rischio (di Lucia Egaña)

(quando ho letto il post Politicas de riesgo di Lucia ho capito che, rispetto alla querelle Macba, era il pezzo di discorso che mi mancava. grazie a lei per averlo esplicitato e grazie a Claudia Torresani per avermi motivato e aiutato a tradurlo)

l’8 marzo 1857 a new york*, un padrone decise di imprigionare le lavoratrici della sua fabbrica e di bruciarle vive perché avevano manifestato contro le pessime condizioni in cui erano costrette a lavorare.
in Cile, nel marzo del 2015, un padrone tiene imprigionate di notte, in un container, delle donne che lavorano per lui, non si sa né perché né a quale scopo (“Sono politiche aziendali”, dice un altro lavoratore che in quanto portatore di pene non è stato imprigionato, nonostante lavori presso la stessa azienda). nel corso di una calamità naturale, una di quelle che in Cile accadono spesso, i container si riempiono d’acqua, le donne imprigionate non possono liberarsi e muoiono come quelle del 1857, non bruciate vive ma affogate.

Continue reading Politiche di rischio (di Lucia Egaña)

Lo scandalo del MACBa (di bestie, sovrani e altre oscenitá)

Il mondo della cultura spagnolo qualche giorno fa è stato scosso da una serie di eventi che hanno coinvolto il MACBa, museo di arte contemporanea e orgoglio della cittá di Barcelona, e che per una serie di motivazioni politiche e personali sento l’urgenza di raccontare (senza alcuna pretesa di obiettivitá: sono una proletaria dell’arte, una metalmeccanica dell’immaginario, una precaria alla deriva – e da questa posizione scrivo e descrivo).

Il MACBa non è solo è un’istituzione rispettata, dalla programmazione all’avanguardia e strettamente connessa con il brand Barcelona (la maggioranza delle persone che conosco vi è entrata durante il Sonar, forse senza capire nemmeno bene dove stava), ma è soprattutto il luogo in cui nell’ormai sideralmente lontano 2003, si tenne, con la direzione di Paul B. Preciado (ai tempi conosciuto come Beatriz), la mitica Maratona Postporno, uno dei primi eventi di riflessione pubblica e partecipata sulla pornografia a livello europeo.

Piú di 10 anni dopo la pornografia è un tema piú che esplorato, discusso, analizzato dalla cultura “alta”; ci sono pornostar che scrivono di filosofia e filosofi che analizzano la pornografia, le produzioni pornografiche vecchie e nuove vengono ormai considerate prodotti culturali e come tali valorizzate e i temi e stilemi che contraddistinguono il genere hanno ormai invaso il mediascape, influenzando il consumo di massa. L’osceno ha occupato il centro della scena, disvelando pratiche e teorie che, anche quando sono state sussunte dal mercato, hanno determinato processi, seppur contraddittori, di liberazione.

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efecte Ciutat Morta

Llevo días raros, con la ilusión de estar saliendo de una pequeña depresión y el miedo a que en realidad no se me haya pasado para nada.

Intento apegarme a todo lo que conlleve un mínimo de buen rollo y flipo por el hecho de que el subidon por el enorme éxito de Ciutat morta (documental que relata los acontecimientos del #4F) no consiga contagiarme.

Sigo teniendo mucha rabia y desconfío del entusiasmo superficial de lxs televidentes, de la peña que – ahora que HA VISTO – ya se lo puede creer.

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