Una tragedia in tre atti
Prologo
Il padre della mia amica V, dopo averla vista in un servizio televisivo sul Pride ballare seminuda a fianco della scritta Enjoy Stonewall, rivoltati ora e non nella tomba le invia un messaggio di testo che dice pressappoco: Figlia mia, tu non hai bisogno di Stonewall per essere felice.
Atto Primo
É la notte di sabato 22 giugno a Palermo. La sfilata è finita, il megaevento del Pride nazionale – che per due settimane ha animato i Cantieri Culturali della Zisa – si avvia alla chiusura.
Per le strade s’attardano gruppetti e coppie ancora festanti.
Intermezzo in forma di divagazione personale
A Palermo ci sono stata giusto la settimana prima. Della cittá ho amato il cibo, il mare, la generositá delle persone con cui ho avuto a che fare, le strade sgarrupate che mi sembrava sempre di stare tra Napoli e Beirut e quel senso di bellezza nonostante tutto.
Ma tra tutte queste cose notevoli e piacevoli ce n’era una che proprio non riuscivo a sopportare: la pratica costante (e normalizzata) del commento (piú o meno complimentoso) al mio passaggio.
Ora, alla bella etá di quasi 40 anni sono abbastanza consapevole del mio body language – e se scelgo di vestirmi in maniera provocante poi sono capace di assumerne le conseguenze… il problema è che a Palermo, pur andando in giro acchittata come una beghina venivo redarguita ad ogni angolo – con parole ed espressioni che tra l’altro non capivo.
E troppo pigra e pacifica per prendere di petto la situazione facevo sempre finta di non sentire (anche perché effettivamente non capivo cosa mi veniva detto, anche se gli sguardi me lo facevano immaginare). Il mio Io femminista era spesso, per questa ragione, molto a disagio (con un senso di rassegnata impotenza simile a quando in Palestina, d’agosto, andavo in giro con magliette a maniche lunghe… qua la storia va cosí).
Ma torniamo alla sera del Pride.
Immaginate una piazza qualunque della Vucciria, zona in cui si concentra la vita notturna palermitana.
Le mie amiche bevono e chiacchierano, contente e un po’ brille quando a un certo punto la loro attenzione è attratta dal vociare molesto di un gruppetto di energumeni. Dall’altro lato della piazza, due ragazzi seduti su un muretto si baciano. Lo fanno con delicatezza, senza nessuna esagerazione. Non ostentano, semplicemente esistono.
Ma per il gruppo di buzzurri che li prende a male parole quella visione è evidentemente insopportabile. I ragazzi non li notano – oppure come me fanno finta di niente, per quieto vivere, pensando che magari tra un po’ li lasceranno stare… finché una bottigliata non li raggiunge a poca distanza dai piedi.
A quel punto non possono piú far finta di non sentire; si alzano e se ne vanno abbastanza in fretta.
Le mie amiche rimangono gelate. Non sanno cosa fare o dire.
Fine primo atto.
Atto secondo
Sono le 3 di mattina del 27 giugno. Quartiere del Raval, Barcellona.
Alla Bata de Boatiné – uno dei locali queer storici della cittá catalana, angusto come un budello e frequentato abitualmente dalla creme dell’attivismo postporno – si festeggia: è il finesettimana del Orgullo (il Pride in Spagna si chiama Orgoglio), si ricorda la rivolta di Stonewall e per la cinquantina di persone lí riunite quell’incontro ha piú significato che la sfilata del giorno successivo.
In pochi minuti peró, alla festa si sostituisce l’angoscia.
Per entrare alla Bata c’è bisogno di suonare un campanello, ma i 20 mossos che entrano bardati come per un’operazione antiterrorismo preferiscono sfondare la porta. Sono incappucciati e armati (qualcuno pistola alla mano) e non si capisce bene cosa cercano, ma se l’obiettivo è spaventare ci riescono benissimo. Faccia al muro e silenzio, ordini gridati in faccia, spintoni.
4 furgoni della polizia (i mossos d’escuadra sono il corpo di polizia autonomico catalano) bloccano calle Robadors, entrando anche nel locale continguo alla Bata, il 23. Per un paio d’ore la strada è bloccata, alcune delle persone che si trovavano all’interno dei locali vengono identificate, perquisite e se osano chiedere perché si prendono anche qualche schiaffone (i mossos sono famosi per avere la mano pesante…)
Si saprá poi che sono 6 i locali *d’ambiente* (gay, lesbico, queer) che quella stessa notte sono stati assaltati e perquisiti in cerca di irregolaritá amministrative. Nessuno di loro – caso strano – si trova nella zona del cosiddetto Gayxample (congiunzione tra Gay e Eixample, nome di un quartiere abbastanza borghese della cittá), territorio piú turistico in cui regna la peseta rosa, ovvero il commercio frocio in tutte le sue declinazioni.
Le persone che hanno vissuto queste retate le descrivono con il terrore abituale di chi sa di vivere in uno spazio/tempo in cui è diventato aleatorio e revocabile lo stato di diritto.
Certo che oltre al danno, in questo caso c’è stata pure la beffa…
(anche al secondo atto siamo sopravvissute. per il momento)
Atto terzo
Lunedí 1 luglio prendo un aereo per Roma. Con le migliori intenzioni mi sono prestata a partecipare a un’intervista per un bel programma della televisione italiana (sono pronta ad essere masticata e digerita – sono pronta a sforzarmi di comunicare qualcosa di radicale e rivoluzionario e che di ció passi meno del 30% – sono pronta anche a sembrare una scema; per una volta ho deciso di compromettermi e che il gioco vale la candela), quindi in due giorni mi tocca fare un assurdo ping pong Barcellona-Roma.
Mi offrono tutti i comfort di serie: dall’aeroporto una macchina con autista mi accompagnerá fino al Teatro delle Vittorie come se fossi una Lorella Cuccarini.
L’autista deve avere piú di sessant’anni e mi dice che devo tenere i finestrini chiusi. Evabbé.
>>>>>>>>> Chi mi conosce sa che odio viaggiare in automobile – in realtá sono macchinafobica che non so come si dice – e uno dei modi per sostenere la paura che mi tortura è quello di viaggiare con la testa fuori dal finestrino come un cane, inebriata dall’aria
Il tipo ha voglia di chiacchierare. Mi dice che Prati non è al centro di Roma, e che si chiama cosí perché prima che ci mettesse mano Mussolini lí era solo campagna.
Io mangio la foglia.
Il vecchio fascio è il contrappasso che mi tocca per aver scelto di ammischiarmi con un media mainstream. Calcolo mentalmente il tempo che manca all’arrivo a destinazione e mi impongo di rimanere zitta e di non rispondere a nessuna provocazione.
Il tipo deve pensare che chi tace acconsente, quindi continua a sproloquiare finché non arriva a quello che dev’essere il suo pezzo forte, ovvero “A me sti froci me fanno proprio schifo”.
Lí smetto di far finta di non sentire e gli dico che non gli ho chiesto la sua illuminante opinione sull’argomento e che anzi non ho proprio piacere di starla a sentire. Il tipo continua a blaterare minchiate omofobiche anche pesanti come se ció fosse un suo pieno diritto.
Per fortuna siamo arrivati a Prati, nel frattempo.
Esco dalla macchina con una rabbia che m’acceca pensando a Clement Meric, l’attivista francese ucciso dai fascisti una settimana dopo aver partecipato alle manifestazioni a sostegno della legge sul matrimonio omosessuale in Francia.
Bestemmio al ricordare la nuova legge russa che proibisce la propaganda gay e mi viene da ridere amaro se penso che nel mondo dello spettacolo, in Italia, non esiste nessuna lesbica che viva tranquilla fuori dall’armadio le sue storie d’amore.
Epilogo
Il padre della mia amica ha torto di brutto.
Di Stonewall c’è ancora bisogno. E tanto.
Ma non per essere felici, proprio per sopravvivere.