li mortacci mia (tre coccodrilli fuori tempo massimo)


ho finito di scrivere questo post all’alba del 14 dicembre, ma poi gli eventi hanno avuto la meglio e non sono riuscita piu’ a trovare il tempo di pubblicarlo. lo faccio oggi, mentre la mia bella dorme, e come al solito mi sembra che le casualita’ non siano casuali… perche’ oggi e’ l’ultimo giorno dell’anno: momento di bilanci, tempo di scegliere cosa ricordare e cosa dimenticare dell’anno appena passato.


anche questo post ha a che fare con la memoria. parla di persone che non voglio e non posso lasciare indietro, nonostante non siano piu’ qui. persone che hanno lasciato una traccia e a cui ho pensato, vivendo e riflettendo su alcuni eventi degli ultimi mesi dell’anno che finisce.


sono i miei lari politici, i morti con cui ho camminato battaglie e con cui ho condiviso sogni. li ricordo oggi, perche’ senza memoria non c’e’ futuro e io di futuro sono affamata.

Uno dei difetti principali di questo blog e’ che – come si dice tecnicamente – non “sta sul pezzo”, ossia non ha sincronicita’ con gli accadimenti, quelli dei giornali perlomeno. Colpa della scrivente, che di sicuro si e’ imbaratrata fino all’ultimo secondo della gravidanza con lavori e lavoretti, ma che anche a prescindere dagli impegni ha sempre bisogno di un po’ di tempo per digerire e assimilare le notizie, prima di sputare la sua.

Ho deciso di raggirare decisamente la questione e di approfittare di questo mio regime atemporale per buttare giu’ tre “coccodrilli”. Il coccodrillo (altro termine tecnico abbastanza orribile rubato al giornalismo) e’ l’articolo che si scrive in mortem di qualcuno o qualcuna.
La peculiarita’ di questi tre coccodrilli e’ che, pur non riguardando dei cari estinti freschi di giornata, a mio modo di vedere sono legatissimi ad alcuni eventi delle ultime settimane.
Perche’ sono tre pezzi che mi mancano. Tre sguardi, tre corpi, tre storie che se non fossero mancate all’appello forse qualcosa sarebbe stato diverso, se non per la cronaca almeno per me.


1
Dino Frisullo, l’uomo che volle farsi kurdo

Io Frisullo in vita non l’ho mai chiamato Dino. Lo incontravo sempre alle assemblee e sapevo benissimo chi era, ma fra noi non c’era nessuna confidenza. Era un compagno serio che dimostrava piu’ anni di quanti ne avesse in realta’ e non era di quelli che facevano gli scemi con le ragazzine come me. Credo che mi intimidisse la sua aria da apostolo, quel coraggio mite e testardo che un po’ gli invidiavo, quella purezza fervente fuori da qualsiasi stereotipo militante di quelli a me conosciuti…
Dino Frisullo era un rivoluzionario professionale: rappresentante della associazione per i diritti dei  migranti Senza Confine, era il portavoce della Rete antirazzista e promosse l’apertura di Ararat, uno spazio sociale per il popolo kurdo all’interno del Campo Boario.
I kurdi e il Kurdistan erano la sua vera fissazione: a questi disgraziati senza terra, senza diritto nemmeno a parlare la loro stessa lingua, gasati da Saddam e maciullati in una guerra infinita coi turchi, Dino Frisullo si dedico’ completamente. Tanto da fondare un’ennesima associazione, Azad. Tanto da finire nelle orribili galere turche per ben due volte, l’ultima delle quali nel 1998: un insalubre soggiorno di 40 giorni dovuto alla sua partecipazione al Newroz, il capodanno kurdo (ai tempi in cui ero giovane e rivoluzionaria era un vero MUST dell’internazionalismo andare a farsi menare a Dyarbakir…).
Gioimmo e soffrimmo insieme in quel di piazza Kurdistan, esperienza il cui finale tragico mi spinse a cominciare a disertare le noiosissime assemblee cittadine: nel frattempo avevo scoperto il magico mondo del web e del mediattivismo e con essi la possibilita’ di sfuggire alla pesantezza dell’essere romana.
Di Frisullo seppi che stava male grazie a qualche commento tra il pettegolo e l’incredulo e capii che era morto in una mattina di giugno un po’ livida, mentre passeggiavo per piazza Vittorio. Passo’ una macchina carica all’inverosimile, autoradio a palla, clacsonata selvaggia e bandiere kurde al vento: loro salutavano un fratello e io quasi senza accorgermene avevo le lacrime agli occhi.


Cosi’ Dino Frisullo si accomiatava dal mondo:
Se morissi adesso o fra due giorni o un anno, ecco il mio testamento, il testamento di un comunista avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso. Lascio tutto il mio disprezzo a chi mi ha usato. Lascio tutto il mio odio a chi mi ha dato un mondo senza gioia, da attraversare a denti e pugni stretti.
Lascio la nostalgia per le moschee di Gerusalemme e gli ulivi di Puglia ed ogni roccia, pianta, finestra, stella, che i miei occhi hanno accarezzato nel cammino
Lascio fiumi di dolcezza alle donne che ho amato.
Lascio fiumi di parole dette e scritte spesso con rabbia, raramente con saggezza, in malafede mai, un mare di parole che già evapora al vento rovente del tempo.
Lascio a chi vorrà raccoglierlo, il testimone del mio entusiasmo, nella folle staffetta mozzafiato -volgendomi indietro dopo vent’anni non so più se ho corso da solo.
Lascio il mio sorriso a chi sa ancora sorridere
E le mie lacrime a chi sa piangere ancora.
Non è poco. In cambio, voglio essere sepolto senza cippi e lapidi fra le radici di una albero grande in piena nuda terra rossa e grassa perchè il mondo con me respiri ancora e si nutra con me di ogni mia fibra. Con me (non vi sembri retorica) solo una bandiera rossa e la nave del Ritorno intagliata con le unghie nella pietra di un prigioniero assetato di vita nel deserto del Neghev. 


2
Valerio Marchi, l’intellettuale di strada

Valerio Marchi era un mio amico.
Un sociologo senza cattedra ben piazzato sulla strada, un accademico senza spocchia e senza peli sulla lingua. Si occupava del conflitto giovanile nelle sue forme impolitiche, del teppismo e degli ultras.
Ci eravamo conosciuti ai tempi di Control Alt, quando battevo le peggio piazze e i muretti piu’ marginali di Roma, camera a spalla, alla ricerca di amici e parenti di detenuti che volessero salutare i loro cari attraverso la trasmissione che curavo per il Candida Scio’ prima, per Odioilcarcere poi.
Valerio era stato un sostenitore entusiasta dell’iniziativa e mi aveva aperto le porte della sua San Lorenzo, della sua libreria e un po’ pure del suo cuore. Gli stavo simpatica e ricambiavo: Valerio era schietto, carismatico e appassionato e nonostante fosse uno skinhead era un critico dello stile maschio violento. Non e’ che fossimo sempre d’accordo, ma con lui si poteva ragionare. Era ironico e sapeva ridere e sapeva anche ridere amaro. Passare per la sua libreria era un piacere di cui non mi privavo mai: lui era sempre prodigo di consigli letterari ed esistenziali.
A volte era triste e presomale – il pessimismo della ragione; qualcuna di queste volte invece mi resi conto che le sue erano sofferenze d’amore. E mi sembro’ ancora piu’ figo.
Con quella voce roca, l’aria solida e il sorriso amaro era il padre che mi sarebbe piaciuto avere.
 


3
Bianca, la femminista che sorrideva

Quando la scrivente era tardoadolescente (o, per meglio dire, era ancora una ggiovanedeicentrisociali) la parola femminismo era ancora una e indeclinabile, oltre che quasi sempre inscindibile da separatismo.
Le femministe erano, tra le ragazze del movimento, quelle che si vestivano male per principio, sempre ingrugnite e simpatiche come un calcio nei reni. O almeno questa era la mia superficiale impressione, visto che queste tipe non riuscivo mai a conoscerle piu’ di tanto.
Di femministe di eta’ piu’ avanzata non ne avevo esperienza, non frequentavo spazi separati e le compagne grandi non si definivano femministe: credo che fosse un dato che consideravano assunto e che comunque si tendeva a non sottolineare.
Il postfemminismo nella Roma dei primi anni ‘90 era una necessita’ ancora in incubazione e i miei timidi tentativi di avvicinarmi alle situazioni di donne si bloccavano sull’orlo di una minigonna inguinale di pelle blu elettrica che avevo il vizio di indossare molto spesso. Fortunatamente, passati quei tempi severi di riflusso, ci siamo beate di tutta una serie di riappropriazioni (che hanno compreso le minigonne, i boa di struzzo e la lotta nel fango), abbiamo conosciuto e amato uno scandalo di donna come Annie Sprinkle, ci siamo ubriacate delle teorie queer e contrasessuali e alcune hanno osato addirittura rivendicare il diritto a una pornografia femminista. All’epoca invece, la mia esuberanza di tette e coscie di fuori mi faceva solo vincere il primo premio di schiava dell’occhio del maschio, con relativa annessa antipatia delle giovani (maistategiovani) di cui sopra, con le quali mi incrociavo spesso ma che non mi parlavano e non mi sorridevano MAI (anzi diciamo che non mi vedevano proprio).
Fu quindi con timore e a occhi bassi che alla fine del primo anno di universita’ partecipai a un convegno organizzato dai collettivi separatisti piu’ rinomati della capitale. In compagnia della minigonna blu e della mia amica Susanna (rea di riso cavallino, colpevole di abuso coordinato e continuativo di thc e di avere le gambe chilometriche e i capelli pure loro lunghi e biondi), entrai trattenendo il fiato nell’aula dove partigiane, intellettuali e attiviste raccontavano un secolo di femminismo.
E per la prima volta vidi lei.
Lei sorrise come se mi conoscesse e in quel sorriso c’erano tutti i benvenuta che le altre grugnone non m’avevano mai detto. Mi sembro’ bellissima anche se adesso la sua faccia me la ricordo appena. Era mora e il suo corpo trasmetteva una sensazione di morbidezza, al contrario delle altre amiche sue che sembrava avessero sempre mangiato una scopa a colazione. Di quel giorno ricordo la sensazione di capire per la prima volta che cazzo era, il femminismo. Ma non l’avevo trovato nelle parole di Joyce Lussu ne’ in quelle della compagna del Pompeo Magno che raccontava la dirompenza del girotondo e dei palloncini nelle piazze maschie degli anni ’70: il femminismo era negli occhi di Bianca, che moderava gli interventi e che dalla presidenza si guardava intorno curiosa.
Con Susanna ce ne andammo prima della fine, dichiarandoci entrambe innamorate di quella ragazza che sorrideva e ripromettendoci che alla prossima gli sguardi ostili non ci avrebbero fermato: pure a noi ci piaceva il femminismo, volevamo essere femministe e sorridere e fare i girotondi e tenere la mano di altre donne belle e accoglienti come Bianca.
Ma l’estate arrivo’ piu’ in fretta del previsto e mentre me ne stavo a Berlino per una settimana mens sana in corpore sano col mio gruppo di ginnastica ritmica sperimentale, mi arrivarono due notizie pazzesche: la Torre era stata sgomberata e Bianca era morta in un incidente d’auto.
Mi ricordo il momento esatto in cui il mio fidanzato dell’epoca mi avvertiva cercando di non appesantire ulteriormente la situazione. Perche’ alla Torre i compagni erano rientrati, diceva, e stava succedendo un macello.
Pero’ io mi sentivo lo stesso le spalle pesanti e gli occhi che si gonfiavano come se un lacrimogeno m’avesse raggiunto a Berlino e presa in pieno. Bianca non c’era piu’, il suo sorriso non avrebbe piu’ illuminato nessuna assemblea noiosa, non l’avrei mai conosciuta ne’ abbracciata, non ci avrei ballato insieme ne’ le avrei detto grazie per non avermi fatto sentire, per la prima volta, un’estranea e una diversa in mezzo alle compagne.


Bianca se ne andava pero’ allo stesso tempo rimaneva con me.
In tutti questi anni l’ho sempre ritrovata in tutte le sorelle capaci di non perdere la tenerezza, in quelle curiose che prima di giudicare accoglievano, in quelle che parlavano al plurale, in tutte le sorelle (pure quelle col pisello). 

 

 

e la minigonna di pelle blu elettrica mica lo so che fine ha fatto… 

5 thoughts on “li mortacci mia (tre coccodrilli fuori tempo massimo)”

  1. Beh, tu mi conosci…diciamo che morigerata non lo sono mai stata, eppure facevo parte proprio di quel collettivo, in cui ho visto indossare guêpière, mini fosforescenti, in cui si poteva stare nude volendo, in cui si parlava di politica mentre ci si tingeva i peli delle ascelle per farli zebrati…si anche riunendosi per organizzare seminari. E’ stata l’esperienza più profondamente politica e contemporaneamente punk-rock-queer collettiva che ho vissuto. Leggere questo tuo post mi ha fatto venir voglia di raccontare parte di quello che è stato per me il mio collettivo: https://akarho.noblogs.org/post/2012/08/07/il-mio-collettivo/

  2. cara Gio, con gli amici di Marchi non ci ho mai avuto niente a che spartire – forse é per questo che non ne parlo.
    con le amiche di Bianca invece ci ho avuto a lungo a che fare (purtroppo molto piú che con lei stessa) – e t’assicuro che se mi fossi limitata al boa di struzzo per reinventarmi un femminismo che fosse accogliente anche per me… beh, con quel boa mi ci potevo anche impiccare.
    nel testo non mi sembra di dire in nessuno momento che aborro il separatismo. a vent’anni, l’etá che avevo quando succedevano le cose che racconto, facevo fatica a capirne il senso… ma soprattutto perché mi sentivo esclusa dalle simpatie (e dalla considerazione globalmente intesa, diciamo) di chi lo praticava. se esisteva un limite di separazione, io ero dall’altra parte – senza peraltro averlo scelto.
    poi passano gli anni e anche i decenni e ti rendi anche conto che spesso sono le paranoie ad avere la meglio su simpatie, antipatie e possibilitá/impossibilitá a relazionarsi; che un non sorriso o uno sguardo inquisitorio non sono una condanna senza appello, che non comunichiamo tutte nello stesso modo- e vari eccetera.
    per quanto mi riguarda, ho dovuto fare parecchi chilometri per capirlo.

  3. faccio fatica a riconoscermi nella femmisnista col palo nel culo, e anche a tirare un sospiro di sollievo perché il femmismo bigotto è stato superato grazie ad un boa di struzzo che finalmente ci ha rese libere, come faccio fatica a ritenere il separatismo una pratica non più attuale-attuabile-efficace. di Bianca forse cogli alcuni tratti proprio belli, ma senti il bisogno di farlo vs un negativo, che erano tutte le altre. Strano che la stessa operazione non ti sia venuta altrettanto di getto nel collocare Valerio Marchi a via dei Volsci. proprio strano.

  4. credo sia il piu’ bel “pezzo” (approposito di termini giornalistici) che tu abbia mai scritto (e ne ho letto un bel po’, sui tuoi blog…)..
    forse perche’ abbiamo scheletri molto simili negli armadi…
    ma voglio aggiungere…
    che quei curdi che urlavano con le bandiere al vento, dalle macchine…poco prima, alla sua commemorazione (all’ex mattatoio, a fianco al Villaggio), mi era parso che cercassero di richiamarlo in vita, dicendo, gridando:”uno come lui non e’ morto, non puo’ morire!”.
    Nemmeno io lo conoscevo di persona, ma sapevo chi era e che tipo di vita faceva. Ma li’ al suo funerale, e al suo incredibile corteo funebre fino al verano (quello che tu hai visto passare…dove c’era anche la mia macchina, anch’essa piena di curdi!)…ho capito quanto sarebbe mancato nei giorni, nei mesi, e negli anni a venire, e che sarebbe stato fantastico ma altrettanto difficile che, come qualcuno aveva detto in quel giorno, “un po’ di Dino frisullo, della sua forza, della sua tenacia, fosse rimasto in ciascuno di noi, in eredità…”.
    Ma io penso che e’ rimasto…il problema e’ che tocca farlo venir fuori!
    Bacibaci…ora vado a leggere l’ultimo post!!!

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