Cronaca semiseria del mio parto ad uso e consumo di altri esseri umani che abbiano l’ardire di riprodursi nel terzo millennio.
Dedicata ad amiche, conoscenti e semplici voyeur di passaggio.
Scritta di getto, in orari improbabili, nei momenti di pausa di questa prima settimana da mamma.
Prologo
L’anticonformismo dell’anticonformismo e’ un’inculata egotica (e io non sono Lucia Etxebarria)
Io ripetevo sempre che non credevo nella mistica del parto naturale, perche’ comunque un po’ mi cagavo sotto e quindi non mi sarei mai sentita cosi’ sicura di me e delle mie forze tanto da dire: partorisco in casa, tanto noi donne siamo capaci di partorire. Anni a rivendicare un corpo nato per il piacere transgender non si cancellano all’alba di un desiderio nuovo da trentenne suonata.
Mi sarebbe piaciuto partorire in acqua, da quando mi ricordo mai di aver avuto una mezza idea concreta di figliare, e durante la gravidanza avevo pure visto un bel documentario che parlava, tra l’altro, della mitica clinica Acquarius, luogo fricchettone fin dal nome ma attrezzato pure per qualsiasi emergenza con strutture medico-chirurgiche in quel di Alicante. Partorire li’, oltre a segnare per sempre il karma della creatura (Alicante e’ una sorta di Rimini nella comunidad valenciana) veniva a costare la non modica cifra di 3000 euro, quindi la possibilita’ di sgravare sulle note di Hair purtroppo non venne mai seriamente presa in considerazione.
Non mi rimaneva – come quasi sempre nella vita – che dare fiducia al “pubblico”. Qui a Barcellona sono due gli ospedali che hanno il protocollo di parto naturale, uno e’ la Maternidad (dove ogni catalana di buon senso e poche risorse si dirige senza dubitare) e l’altro l’Hospital de San Pau, una gioia architettonica che pero’ come il precedente mi sembrava rimanesse troppo lontano da casa mia. Sobillata dall’ostetrica Silvia che ci faceva i corsi preparto, mi decisi alla fine per l’Hospital del mar. Perche’ conoscevo la struttura, che e’ la piu’ vicina a casa e perche’ la creatura era stata concepita in un sottotetto di 28m2 alla Barceloneta e mi sembrava di buon auspicio tornare li’ per darle la benvinguda.
Silvia mi faceva ridere in tutte le lezioni, sapeva quali corde toccare per tranquillizzarmi e me la incarto’ cosi’ abilmente che pensai che tutte le mistiche del parto naturale erano fisime fricchettone e che bastava che mi sucassi la prima parte della dilatazione a casa in mezzo alle mie cose, con musica, aromaterapia e liberta’ di movimento fino all’ultimo (avevo letto un bellissimo articolo di Lucia Etxebarria, che e’ uno dei miei idoli, dove raccontava che lei aveva fatto cosi’) per arrivare all’Ospedale e semplicemente dire: si us plau, datemi una mano che quella testa che spunta tra le cosce comincia a darmi fastidio e vorrei vedere in faccia la mia creatura, grazie.
Ma la vita non e’ un cuento, a volte e’ una parete dura su cui sbattere il grugno troppo fiduciosamente sorridente. Perlomeno per me questa volta e’ andata cosi’.
0.1
Chiare, fresche, dolci acque
I dolori del parto (che in politically correct sanitario di chiamano ipocritamente “contrazioni”) erano il mistero da risolvere. Come mi sarei sentita? Dov’era che faceva male, esattamente? E come?
Sarei stata cosi’ fortunata da poggiare il culo in quella percentuale di fortunate che hanno una soglia del dolore cosi’ alta che “i dolori” gli fanno un baffo? (non lo credevo, lo so che sono una mollacciona… ma irragionevolmente ci speravo tanto…)
Sapevo che erano simili a dei dolori mestruali (dei quali i nove mesi di panza m’avevano cancellato memoria). Il cervello, pero’, fa presto a rievocare i brutti viaggi… cosi’ fu che la mattina del 14 dicembre mi successe la cosa piu’ sgradevole che mi succede sempre quando mi vengono “le mie cose”: per il dolore dovetti alzarmi dal letto alle 5, tra questo mal di pancia che improvvisamente tornava familiare e la strizza al culo perche’ tutto stava cominciando.
Casualmente quella stessa mattina avevo la prova di monitoraggio per sentire se la creatura stava a posto. Per scaramanzia mi portai appresso la borsa gia’ preparata. Di contrazioni ne avevo pochine, quindi come minimo pensavo che “prima” ci saremmo fatti una passeggiata al mare, aspettando che diventassero regolari e continue.
Da qualche giorno avevo delle perdite. Non che fosse una novita’: durante tutta la gravidanza mi ero sentita come le donne delle pubblicita’ dei salvaslip, che fiottano mucosita’ non solo in “quei giorni” canonici, poveracce. Solo che durante l’ultima settimana il livello di bagnato aveva veramente superato la soglia dell’accettabilita’ e quindi giravo con un assorbente (la Silvia m’aveva impartito una filippica contro l’uso del salvaslip, reo di essere zona di cultivo micotico).
Quando raccontai di queste perdite abbondanti all’ostetrica che mi monitorava la panza mi disse: guarda che allora devi farti visitare, perche’ potresti aver rotto le acque.
Io, se ero certa di qualcosa era che non avevo rotto ancora proprio niente: la rottura delle acque era una cosa seria, mi immaginavo una portata di affluente sinistro del Po tra le cosce e non gli schizzetti (fastidiosi, ma minimal) che avvertivo io.
Quindi non c’era pericolo. Quindi ok, mi facevo visitare ma poi ciao eh?
0.2
Lo speculum e la cacciata dal Paradiso Terrestre
Quando entrai nella zona top secret del anti-paritorio dovetti lasciar fuori IL padre, visto che era solo un’esplorazione. E mi prese il panico.
Le salette travaglio erano due, minuscole, con due letti in ciascuna, separati appena da una tenda.
Mentre aspettavo che qualcuno mi cagasse potevo vedere una cicciona (le donne incinte quasi mai sono magre) vestita con una vestaglietta dell’ospedale che la copriva appena e seduta su una palla gigante di quelle da ginnastica. Aveva un’aria tristissima e smarrita. Quella visione mi fece sudare freddo.
La ginecologa che mi visito’ era – l’avrei scoperto solo dopo – la piu’ stronza di tutto il reparto. Mi tratto’ da scema e con una freddezza tale che io che spruzzavo ossitocina da tutti i pori proprio non mi spiegavo. Erano mesi che non andavo dal ginecologo e come per i dolori mestruali avevo dimenticato la scomodita’ imbarazzante della posizione esplorativa (gambe all’aria – le mie regolarmente pelose e con calzettone di spugna d’ordinanza – appoggiate su due arnesi di metallo freddo) e soprattutto avevo rimosso dalla memoria l’esistenza dell’odioso speculum.
Per chi non lo sapesse, lo speculum e’ un attrezzo di tortura che si utilizza in ginecologia. E’ metallico pure lui e ha la forma di un becco d’uccello. Si inserisce nella vagina e quando il becco sta ben infilato dentro, si apre per offrire una visuale completa delle femminee interiora.
Quando Dio caccio’ Eva e Adamo dal paradiso disse a lei: Tu partorirai con dolore! E disse a lui: Tu lavorerai come uno stronzo!
I due si allontanarono bestemmiando e Dio gli tiro’ appresso uno speculum: E non dimenticatevi questo!
Io lo speculum lo odio. Odio che mi dicano: devi rilassarti, perche’ tanto lo so che mi fa male lo stesso. Soprattutto se e’ una stronza a infilarmelo – con poca grazia – nella fica. (E dire che a infilarmi cose su per la fica in genere non mi faccio tanti problemi…)
La dinamica degli eventi me la ricordo cosi’: io che dico “no estoy segura de haber roto aguas, a mi me parece que no”, la stronza che si avvicina, mi infila lo speculum con malaleche, io gemo, lei mi dice “asi’ no va bien, tienes que relajarte o te va a doler” (gia’ mi stava facendo un male cane, cara), lo speculum si apre e io vedo le stelle (metafora di cui abusero’ mano a mano che va avanti il racconto ma che davvero mi sembra la piu’ efficace: ci sono dolori che ti tolgono la vista, in un momento ti trovi immersa in un buio pieno di lampi che ti arrivano tutti dritti in fronte).
Quando riesco a respirare e riemergo dal buio sento un blob blob e la stronza che dice: si’ che hai rotto le acque, mi passate un cestino che si sta bagnando tutto per terra? Prosegue poi, con aria minacciosa: ti fermi qui con noi, che il parto e’ iniziato.
(Mi rimarra’ sempre il dubbio che sia stata questa stronza ad avermi aperto le acque con una mossa infelice e comunque spero iddio di non incontrarla mai piu’.
Lo spero per lei.)
0.3
Chi di ossitocina ferisce…
Cosi’ mi ritrovo alle 10.45 vestita con la triste vestaglietta di cui sopra, senza nemmeno le mutande e con un pannolone da tenere in equilibrio in mezzo alle gambe – ma tanto non posso nemmeno camminare, perche’ sono stesa sul letto con due cinghie che mi stringono la panza. Due sensori controllano il cuore della creatura e la dinamica delle mie contrazioni. Il primo va bene, le seconde scarseggiano. Dopo un’oretta abbastanza noiosa passata cosi’ si procede a una nuova esplorazione, per controllare se il mio collo dell’utero ha fatto il favore di aprirsi e di cominciare a dilatare. I risultati dell’esplorazione sono deludenti. Il collo del mio utero si rifiuta di collaborare e come da prassi del parto medicalizzato comincia lo stillicidio dell’ossitocina. Mi aprono una via nel polso e mi attaccano una flebo. L’ormone sintetico comincia a pompare e le contrazioni cominciano a farsi sentire con una certa regolarita’. Fanno male ma sono ancora entro i margini di sopportazione, sara’ anche perche’ per almeno un’ora mi lasciano camminare per un corridoio stretto in cui i medici fanno su e giu’ senza manco vedermi e io mi sento cosi’ misera, con quella vestaglietta, il pannolone e trascinandomi appresso il palo della flebo. Come sempre, all’alba dei momenti tragici, tiro fuori la mia parte pagliaccia e spiego a IL padre che l’ossitocina sintetica la danno anche alle cavalle, per farle partorire. E che se proprio dovevano farmi come un cavallo preferivo la ketamina.
0.4
Con poco tatto
Passata cosi’ un’altra ora, mi portano di nuovo nella sala delle esplorazioni. A prendersi cura di me sono il primario e una medico bonissima, coi capelli lunghi e neri e la frangetta. Il capo della scena del parto mi avverte fin da quando mi vengono a chiamare: ti faro’ una cosa che ti fara’ cagare in tutti i miei morti, ti permetto di rimontare a tutte le generazioni che vuoi ma sappi che e’ quello che devo fare. Io che sono gia’ rincoglionita dall’emozione e dal dolore sottovaluto queste sue parole. E faccio male. Non arrivo preparata al dolore piu’ intenso di tutta questa storia.
La bonissima e il capo mi infilano a turno una mano nella vagina e fanno una manovra strana, che mi fa urlare come un vitello scannato e vedere le stelle di tutto l’universo. Quando riacquisto la vista e torno gemendo in sala travaglio IL padre, che mi ha sentito gridare, e’ bianco come un morto e anche abbastanza incazzato. Io ho cominciato a piangere nella sala esplorazioni e non smetto che dopo alcuni minuti. La voglia di scherzare e’ passata quasi del tutto. Il medico ci spieghera’ dopo una mezz’ora che, se fatta bene, quella manovra – che lui chiama tacto, mi pare – desencadena la dilatazione. Io non so se era fatta bene e se sono io che sono fatta male, comunque questo tentativo di dilatazione “a mano” non funziono’ per un cazzo.
0.5
Bugie pietose e medicamenti
Passano le ore e le esplorazioni, tutte abbastanza dolorose. Ogni volta mi dicono “va un po’ meglio” ma in una delle rare volte in cui mi alzo per pisciare (ormai sono attaccata ai sensori sempre) leggo nella mia cartella medica che in tutte le tre ultime esplorazioni il commento e’ IDENTICAS CONDICIONES. Cioe’ a dire che me stanno a di’ una cazzata pietosa e che non sta andando affatto meglio, nonostante l’infermiera che controlla le macchine sia entusiasta della dinamica delle mie contrazioni (ci credo, da una parte perche’ lo sento – ormai il dolore mi squarta le viscere – e poi perche’ sono attaccata ormai da ore alla flebo e la dose che mi pompa dentro adesso e’ veramente da cavallo).
Verso le sette di sera, quando cominciano ad apparirmi ai piedi del letto tutti i santi che ho bestemmiato nella vita, dopo che ho smesso di parlare, piango in silenzio e ho solo la forza di dire: no aguanto mas (non ce la faccio piu’), decidono di darmi un calmante, che mi spiegano non ridurra’ il dolore ma la mia coscienza.
Mi torna in mente il mio libro preferito dell’adolescenza, la campana di vetro di Sylvia Plath. Non mi ricordo perfettamente, ma sono sicura che la protagonista del libro ad un certo punto si trova ad assistere ad una nascita e nota come la partoriente sia pesantemente medicalizzata. La Sylvia osserva che del dolore che la devasta probabilmente la donna non ricordera’ nulla, per quanto sta drogata, e attribuisce a questa medicalizzazione pesante la continuazione della specie umana (se le donne ricordassero cosa passano, se lo raccontassero in giro, se si sapesse… nessuna vorrebbe piu’ avere figli).
Quello che mi ripetono le infermiere, per consolarmi, e’ infatti “non ti preoccupare, vedrai che quando avrai il tuo bebe’ tra le braccia dimenticherai tutto”.
Le ore successive sono quindi di dolori che seguono e di rincoglionimento pesante, aggravate (per IL padre, non per me che non capisco piu’ niente) dal fatto che la creatura ha smesso di reagire alle contrazioni.
0.6
Che volemo fa’, dotto’?
Alle 22.45, dopo 12 ore di tortura, visto il risultato negativo dell’ultima esplorazione e che l’effetto del calmante e’ finito, chiedo di parlare con il primario. Gli dico in spagnolo che sto sbroccando e che non resistero’ ancora per molto; che se ci fossero stati progressi mi sarei beccata anche altre 12 ore di dolori, ma visto che non succede un cazzo e continuo ad avere il collo dell’utero di una ginnasta romena dopata…
Lui mi dice che gli dispiace perche’ pensa che il parto naturale e’ sempre meglio (evito di ricordargli, con un nitrito, che nel nostro caso di naturale c’era ben poco) e che anche lui pensa che l’unica soluzione a questo punto sia fare un cesareo.
Mi staccano la fottuta flebo, mi preparano, do’ un abbraccio al padre e gli dico che va tutto bene e comincio a tremare, ma e’ solo il freddo (seeeeee…)
In sala operatoria mi tocca abbracciare il portantino mentre l’anestesista mi bomba l’epidurale (non prima di aver richiamato l’attenzione di tutti i presenti causa presenza tatuaggione di pericoloso insetto in mia schiena, que fuerte).
Sul tavolo operatorio mi posizionano come Cristo e per giunta a gambe larghe. Io penso che presto sara’ finita, ma il tutto durera’ un’ora e mezza.
Un’infermiera mi sta sempre accanto e stupisce quando gli dico che non ho voluto conoscere in anticipo il sesso del nascituro. Mi chiede se puo’ dirmelo, quando sara’ il momento. Gli dico che si’, mi pare arrivato il momento di scoprirlo.
Tra la mia parte cosciente e la meta’ di me addormentata su cui si affannano i medici parlando tra loro e facendo strani rumori e’ steso un pietoso lenzuolo d’ospedale, che mi impedisce di vedere. I minuti sono lunghi, ma ci siamo. Ad un certo punto sento come un raschiare dentro e l’infermiera di prima mi dice “es una niña!” poi ci ripensa “no, es un niño!” pero’ io non sento ancora piangere e allora il primario aggiunge “lo dica la madre cos’e’”.
E il primo pianto di Antonia G., di madre queer e padre hacaro, e’ il suono piu’ femmineo e delicato che abbia mai sentito nella vita. Femmina, indubitabilmente femmina. EVVAI!
Me la appoggiano sul petto e mi liberano una mano perche’ la possa toccare. Ha il naso a patata e una faccia rotondissima. Spalanca gli occhi per guardarmi, forse riconosce la mia voce, io riesco a dire solo “Amore, non piangere”. Le accarezzo la schiena come facevo quando era nella pancia e smette di piangere. Mi guarda e in mezzo minuto sono gia’ perdutamente innamorata.
Epilogo
Non e’ vero che mi sono dimenticata tutto, come potete vedere. Ho anzi voluto scrivere questa memoria (nei rari momenti liberi e di lucidita’ di questa prima settimana da madre e latteria) per ricordarlo meglio e perche’ penso che certe esperienze possono essere condivise; non certo per disanimare chi avra’ la voglia di concedersi il privilegio di un nanetto in giro per casa, ma perche’ certe cose e’ meglio saperle e anche se ogni storia e’ diversa nella vita bisogna essere pronte a tutto.
Io sono pronta, nel caso impazzisca proprio del tutto e mi venga voglia di figliare un’altra volta, a lanciare una sottoscrizione a mio beneficio: destinazione Acquarius a sto giro, eccheccazz!
(canticchiare sottofondo musicale di Hair come sigla di chiusura, grazie)
[A proposito di grazie, io, Antonia e papito siamo stati commossi da tutte le cose belle che ci avete scritto (anche se non so perche’ noblogs fa vedere solo i primi venti). Il fottuto baby blues di questa settimana, senza il vostro calore, sarebbe stato molto piu’ difficile da sopportare.
So che la deontologia blogger impone risposte singole ai commenti, ma io gia’ di mio sono un po’ zagana, e in questi giorni mi permetto di non rispondere nemmeno al telefono. Non vogliatemene.]
ciao slavina, sono l’una di passaggio capitata qui chissà per quale mistero. mi sono detta , ahhh che domenica mattina rilassante. ho iniziato a piangere dalla seconda riga del tuo racconto, e che STORIA ragazzi!!!!
sono emozionata,incazzata e felice allo stesso tempo. grazie per aver condiviso!
tanto amore per voi.
Facile o difficile dare la vita e’ sempre un impegno…. =]
….Acquarius mi madre per anni me l’ha cantata come ninna nanna…
mi rimbombava nel cervello la canticchiavo…. ma solo piu’ grande, molto dopo aver digerito PinkFloyd, Led Zeppelin, David Bowie etc, ovvio anni ’80, ho capito cosa cantava…. e dentro di me: “Anvedi mamma!!!” …
a lot of love!!!!!!!!
ok, per ogni donna il parto è il parto 🙂
io sono riuscita a farlo naturalmente, ma..il monitor non mi segnava le contrazioni, e un’infermiera merdosa mi disse “Cazzo se ti lamenti ora, chissà dopo” quindi allo Spedale (muy naturalista) quando la sera io e il papa’ arrivammo a lui lo mandarono a casa..tanto, dissero, prima di domani..Invece come lui se ne ando’ iniziarono le contrazioni forti, e siccome avevo 21 anni e volevo fare l’eroina..mi feci tutto il travaglio da sola, la notte, attaccata alla sbarra in corridoio. La mattina, tra una contrazione e l’altra riuscii a telefonare al padre che subito mi raggiunse, il monitor continuava a non segnare le contrazioni e poi quando si fecero piu’ fitte e iniziarono le spinte..cazzo..mancavano pochi centimetri di dilatazione. Pastiglietta e posizione a cagnolino a trattenere le spinte, sennò, dissero, mi sarei lacerata. Trattenere le spinte è stato il momento più innaturale più doloroso e terribile. La mia pancia voleva spingere, perché trattenere? Quando finalmente mi lasciarono spingere, dopo mezz’ora usci Giulia, 3.960 kg, ed io mi lacerai lo stesso. Anche io non avevo voluto sapere il sesso prima, ma superfelice perché in fondo in fondo, ma proprio in fondo volevo fosse femminuccia.
Un’ostetrica amica mia, che segue parti in casa dice che mi hanno rovinato il parto, che dovevano lasciarmi spingere, ma chi lo sa.
Ei, la tua bambolina è del mio segno. E poi..niente..io sto lavorando, per scelta in un posto dove la gente muore e niente..oggi avevo bisogno di sentirmi viva.
Benvenuta Antonia!
baci, tro
La condivisione di quello che hai vissuto è una cosa saggia, cuore mio, perchè non lo scorderai mai e – come disse una donna che c’ha pure scritto un libro (caterina botti, madri cattive) – è come se pigiassi un tasto e quando te lo chiedono o ti viene in mente riparte il file. e dirai tutto, nei minimi particolari.
io ero troppo piccola per avere la tua consapevolezza ma ora posso raccontarne e prima o poi lo farò perchè è anche liberatorio 🙂
stai bene tesoro, state bene tutti e tre.
un bacino tenero a Nina :*
un abbraccio forte a te
ps: vai su impostazioni blog e lì trovi una opzione sul numero dei commenti da renedre visibili. resta fissa a 20 se non la modifichi. cambiala che so a 50 e magicamente vedrai tutti i commenti. kiss