Uno stupro amichevole – reload

(è una versione leggermente diversa da quella originale. più matura direi.
è stata pubblicata su LASPRO rivista di narrativa sociale)

non sei sola (foto di Svalilla dal laboratorio Io Porno, Bologna 2015)
non sei sola (foto di Svalilla dal laboratorio Io Porno, Bologna 2015)

Due anni fa, all’inizio dell’estate, ebbi una conversazione illuminante con alcune amiche. Parlavamo di violenza sessuale, nello specifico di quelle che avevamo subito.
Io, un po’ smargiassa, sostenevo di non essere mai stata violentata. Mi vantavo un po’ di una serie di feature animalesche sviluppate in quanto ragazza di borgata (l’occhio del ramarro, la velocitá della gazzella e l’istinto del riccio) che singolarmente e combinate tra loro m’avevano salvato letteralmente il culo in piú d’una occasione di pericolo. Riflettevo anche sul fatto che, pur essendo una psiconauta frequentatrice abituale della via dell’eccesso, in realtá non sono mai stata una sfasciona professionale, di quelle che si mettono nei guai per candore alcolico o ingenuitá chimica.
Neanche il tempo di sentirmi cosí sveglia e fortunata insieme che una delle amiche, guardandomi a lungo negli occhi mi dice: non vorrai dirmi che nessun amico t’ha mai stuprato?
E lí ho deglutito duro e pure se non mi ricordavo bene, ho sentito che non avrei potuto rispondere che no, nessun amico mi aveva mai violentato.
Perché ci sono violenze alle quali non abbiamo il coraggio di dare questo nome; perché è troppo duro ammetterlo, perché magari in quel momento abbiamo lasciato fare, perché uno strillo non ci stava e nemmeno uno spintone – ma perché poi?
A distanza di tanti anni mi chiedo ancora perché non ho avuto il coraggio e la forza di urlargli NOOOOO, CAZZO! e di allontanarlo con una legittima dose di violenza…

La storia è semplice e banale e credo assomigli a un sacco di altre.
Lui era un mio amico. Anzi, di piú. Quando avevo vent’anni e avevo giá alle spalle qualche anno di attivismo studentesco ebbi con lui una storia d’amore breve e abbastanza tormentata. Non viveva in Italia ed era un compagno di provata fede, sensibilitá e intelligenza. Aveva una decina d’anni piú di me ma a quei tempi uno che non avesse almeno un lustro di vantaggio non lo riuscivo proprio a considerare.
Duró poco ma fu un amore intenso e pieno di parole – a quei tempi ancora si scrivevano e spedivano lettere; fu un amore illegittimo e pieno di lacrime, perché io avevo un fidanzato che non volevo lasciare, anche se mi sembrava di essere follemente innamorata di quest’altro (a quei tempi lo chiamavo il complesso di Jules et Jim ed era una primitiva consapevolezza del fatto che un uomo solo né mi sarebbe mai bastato, né avrebbe potuto mai sopportarmi intera).
Insomma Goran (chiamiamolo cosí, che era il nome che gli davo nelle poesie – sí, ero un’attivista che scriveva poesie e indossava minigonne di pelle blu elettrica – proprio normale non sono mai stata) mi tolse definitivamente di dosso il peso della forzata innocenza monogamica e poi partí per il Messico, paese dove soggiornava regolarmente durante gli inverni europei. Io intanto mi ero giá follemente innamorata di qualcun altro e lo persi un po’ di vista.
Lo ritrovai su Internet, alcuni anni dopo. Mi mandava mie foto che trovava in giro per la rete e mi diceva sempre che ero tanto bella.
Poi un giorno mi scrisse che veniva a Roma, per una mostra. Che se lo passavo a salutare, che aveva un sacco voglia di vedermi e sapere che facevo e come mi andava.
Mi andava male, mi sembra di ricordare. Risposi con entusiasmo alla sua mail e ci vedemmo la sera stessa. Era abbastanza uguale a come lo ricordavo: bassetto, biondo e con gli occhi belli, di un’intelligenza un po’ crudele. Aveva piú panza di quanto ricordassi e glielo feci notare.
Io ero stanca e dopo due canne mi sentivo una donna da buttare.
Non ricordo dove fosse la mia casa a quei tempi. Sicuramente troppo lontana, tanto che lui mi disse: se vuoi puoi fermarti a dormire da me, ho una stanza in un hotel qua vicino, tranquilla.
Ora, qualsiasi persona di buon senso che abbia vissuto anche solo pochi mesi della sua vita a Roma sa che “Tranquillo ha fatto una brutta fine”, ma come potevo non fidarmi di lui? Del compagno fondatore di riviste insurrezionaliste che aveva respirato la puzza dei piedi del subcomandante Marcos, dell’amico che m’aveva regalato un coltello, perché puó sempre servire, dell’idolo che praticava la rivoluzione permanente, dell’uomo che m’aveva sedotto raccontandomi per filo e per segno la dinamica di non so che riot di inizio anni ‘80 come se fosse la battaglia di Magenta…
Mi fidai. Salimmo in camera sua. Neanche avevamo cenato: mi buttai sul letto a peso morto e gli dissi: Domattina facciamo una bella colazione, eh?
Lui mi disse: Ti faccio un massaggio. Io gli dissi Ah non lo rifiuto di certo, peró sappi che ho sonno e ho bisogno e voglia di dormire. Lui mi disse un’altra volta Tranquilla.
Il resto è confuso e amaro di sapore. Mi tolgo la maglietta (Sennó, scusa, che massaggio è?) e affondo la testa nel cuscino.
Lui mi tocca la schiena per una decina di minuti, nemmeno, e poi si fionda sul culo. Mi vuole togliere le mutande. Io gli dico che no, ma evidentemente la protesta è troppo blanda. Sono stanca morta e comincio a capire come andrá a finire. Gli dico Dai Goran, magari domattina, è che adesso ho proprio sonno. Mi dice mettiti giú, tranquilla. Mi giro di spalle e cerco di pensare che non sono lí. Si avvicina, mi infila la faccia nella fica, poi ci mette un dito, due dita. Si muove lí dentro, mi allarga, si fa strada. Io sbuffo, mi tiro su e gli dico Ma che fai? Lui sorride e io mi sento una merda. Rimango seduta, tutta rannicchiata: mi bacia e vuole guardarmi negli occhi. Io abbasso lo sguardo e provo a dire È che non mi va e giro la testa, ma lui mi segue, mi infila la lingua in bocca, mi da un milione di odiosissimi bacini sul collo, sulle guance, dovunque arrivi.
Io sento che a sto punto dovrei piangere ma non mi va di piangere, vorrei solo dormire e allora mi rimetto giú e m’affogo nel cuscino.
Lui lo prende come un via libera e a quel punto fa tutto da solo. Sono troppo mortificata per fare qualcosa di diverso dal subire. Penso che se smetto di resistere magari finisce prima.
Si mette un preservativo, entra, stantuffa e se ne viene in un tempo che mi sembra lunghissimo, durante il quale penso che sono una stupida e che è colpa mia, che qui non ci dovevo venire e che questa storia non la sapró mai nemmeno raccontare.
Non mi ricordo la mattina dopo, so che da allora ho sempre accuratamente evitato di incontrarlo. L’ho odiato e non gliel’ho mai saputo dire.
Ho odiato me stessa per non aver saputo reagire. Per tanto tempo ho rimosso il ricordo di quella notte in cui mi sono sentita usata, tradita, insultata.
Eppure alla fine a me stessa sono riuscita a perdonare tutto: l’ingenuitá, l’incapacitá di reagire e il silenzio.
Lui non l’ho perdonato, e in fondo neanche mi interessa piú farglielo sapere. Ho fatto talmente tanti chilometri che ho smesso di considerare questa storia una questione personale.

Penso sia piú utile raccontarla alle donne – e soprattutto agli uomini – che la sapranno ascoltare.